IL CONSIGLIO DI STATO 
 
 
                       in sede giurisdizionale 
                          (Sezione Quarta) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  10495  del   2014,   proposto   da   Associazione
Solidarieta' Diritto e  Progresso  (As.So.Di.Pro.),  in  persona  del
legale rappresentante p.t., rappresentato  e  difeso  dagli  avvocati
Andrea Saccucci e Guerino Massimo Oscar Fares, con  domicilio  eletto
presso lo studio Andrea Saccucci in Roma, viale Parioli n. 2; 
    Contro  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze;  Guardia  di
finanza - Comando generale; Guardia di finanza  -  Comando  regionale
Friuli   Venezia   Giulia,   in   persona   dei   rispettivi   legali
rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura
generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; 
    Per  la  riforma  della  sentenza  del  Tribunale  amministrativo
regionale Lazio - Sede di Roma, Sez. II n. 8052 del 23  luglio  2014,
resa tra le parti, concernente autorizzazione per la costituzione  di
associazioni o circoli fra militari a carattere sindacale; 
    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; 
    Visti gli atti  di  costituzione  in  giudizio  delle  resistenti
amministrazioni; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 marzo 2017 il  Cons.
Luca Lamberti e uditi per le parti l'avvocato Saccucci e gli avvocati
dello Stato Fedeli e Greco; 
    1. Con  ricorso  proposto  innanzi  al  tribunale  amministrativo
regionale Lazio il sig. Francesco Solinas, Brigadiere  della  Guardia
di  finanza,  e  l'associazione  di  egli  espone  di  essere  socio,
denominata «Solidarieta', diritto e progresso»,  hanno  impugnato  la
nota prot. n. 231973/12 del  31  luglio  2012,  con  cui  il  Comando
generale della Guardia di finanza ha rigettato l'istanza avanzata  in
data 11 giugno 2012 dal medesimo sig. Solinas  e  volta  ad  ottenere
«l'autorizzazione a costituire un'associazione a carattere  sindacale
fra il personale  dipendente  del  Ministero  della  difesa  e/o  del
Ministero dell'economia e delle finanze o, in ogni caso,  ad  aderire
ad altre associazioni sindacali gia' esistenti». 
    1.1. Nella nota il Comando ha rappresentato che «la  costituzione
di associazioni fra militari a carattere sindacale  e  l'adesione  ad
associazione della specie gia' esistenti sono  espressamente  vietate
dal comma 2 dell'art. 1475 del decreto  legislativo  n.  66/2010»,  a
tenore del quale, come  noto,  «i  militari  non  possono  costituire
associazioni professionali a carattere sindacale o aderire  ad  altre
associazioni sindacali». 
    1.2.  I  ricorrenti  hanno  lamentato,  in  proposito,  l'assunta
contrarieta' di tale disposizione con  l'art.  117,  comma  1,  della
Costituzione in relazione agli articoli 11  e  14  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo («CEDU»). 
    2. Il T.a.r., con la sentenza n. 8052 del 23 luglio 2014 indicata
in epigrafe, ha ritenuto manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale (e,  conseguentemente,  ha  rigettato  il
ricorso), sulla scorta delle argomentazioni  svolte  nella  pronuncia
della  Corte  costituzionale  17  dicembre  1999,  n.  449,  relativa
all'art. 8 della legge 11 luglio  1978,  n.  382  (poi  abrogata  dal
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66), ai sensi  della  quale  «I
militari non possono esercitare il diritto  di  sciopero,  costituire
associazioni professionali a carattere sindacale,  aderire  ad  altre
associazioni sindacali». 
    2.1. Il  Tribunale,  in  particolare,  premesso  che  «la  stessa
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali ... prefigura una disciplina piu'  restrittiva,
quanto all'esercizio del diritto alla liberta' di  associazione,  per
il personale delle forze armate», ha ritenuto che le limitazioni alla
liberta' sindacale previste dalla normativa nazionale  soddisfino  le
tre condizioni  indicate  dalla  stessa  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo, ossia la legalita', la  finalizzazione
a scopi legittimi e la proporzionalita'. 
    2.2. Il Tribunale, inoltre, ha valorizzato «il dato giuridico per
cui la  posizione  del  militare  e'  connotata  in  modo  del  tutto
peculiare rispetto a tutti gli altri cittadini ed e'  tale  da  dover
subire una limitazione dei propri diritti»; del resto, ha  proseguito
il Giudice di prime cure, «la specialita' della fattispecie  e  della
relativa disciplina e',  in  maniera  complementare,  comprovata  dal
fatto che lo stesso legislatore ha provveduto alla istituzione  degli
"organi di rappresentanza militare"  di  cui  agli  articoli  1476  e
seguenti del Codice dell'ordinamento militare, composti  da  militari
di tutte le categorie e di tutti i gradi, eletti su base democratica,
e con la espressa competenza di rappresentare e difendere, nelle sedi
istituzionali, le aspirazioni,  le  esigenze,  le  proposte  comunque
connesse con gli interessi collettivi delle singole categorie». 
    3. Con ricorso in appello i ricorrenti hanno chiesto  la  riforma
di tale sentenza, anche sulla scorta  di  due  sopravvenute  pronunce
della Corte europea dei diritti dell'uomo emesse in  data  2  ottobre
2014 dalla quinta sezione nei casi «Matelly c. Francia»  (ricorso  n.
10609/10) e  «Adefdromil  c.  Francia»  (ricorso  n.  32191/09),  che
fornirebbero   ulteriori   argomenti    a    sostegno    dell'assunto
dell'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  1475,  comma  2,  del
decreto legislativo n. 66/2010. 
    3.1. In tali pronunce la Corte di Strasburgo ha affermato che «le
restrizioni che possono essere imposte  ai  tre  gruppi  di  soggetti
menzionati nell'art. 11 Convenzione europea per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [membri  delle  Forze
armate, della Polizia e dell'amministrazione dello Stato]  richiedono
un'interpretazione restrittiva e devono, conseguentemente,  limitarsi
all'esercizio dei diritti in questione. Esse non  possono,  tuttavia,
mettere in discussione l'essenza stessa  del  diritto  alla  liberta'
sindacale. Pertanto la Corte non accetta le restrizioni che  incidono
sugli elementi essenziali della liberta' sindacale senza i  quali  il
contenuto di tale liberta' sarebbe vuotato  della  sua  sostanza.  Il
diritto di  formare  un  sindacato  e  di  aderirvi  e'  un  elemento
essenziale della liberta' sindacale» («Matelly c. Francia» §§  57-58,
«Adefdromil c. Francia» §§ 43-44). 
    3.1.1. Se, dunque, e' legittimo per gli Stati  prevedere,  per  i
militari,   restrizioni   dell'esercizio   dei   diritti   sindacali,
purtuttavia secondo la Corte «tali restrizioni non devono  privare  i
militari ed i loro sindacati del diritto generale  alla  liberta'  di
associazione  per  la  difesa  dei  loro  interessi  professionali  e
morali», anche in considerazione  del  fatto  che  l'istituzione,  da
parte  della  legislazione  francese,  di  «organismi   e   procedure
speciali»  di  rappresentanza  militare   «non   sarebbe   idonea   a
sostituirsi  al  riconoscimento  ai  militari   della   liberta'   di
associazione, che comprende il diritto di fondare dei sindacati e  di
aderirvi» («Matelly c. Francia» §§ 69-70, «Adefdromil c.  Francia»  §
54). 
    3.1.2.  Il  principio  sotteso  a  tali  pronunce,  sostengono  i
ricorrenti, lumeggerebbe  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
1475, comma  2,  decreto  legislativo  n.  66/2010,  che,  lungi  dal
restringere  l'esercizio  dei  diritti  sindacali  dei  militari,  li
conculcherebbe del tutto. 
    3.1.3. Ne' potrebbe sostenersi l'equipollenza degli organismi  di
rappresentanza militare istituiti dalla legge,  ritenuti  «organi  di
natura   pubblicistica»   connotati    da    «natura    profondamente
gerarchizzata»,    privi    «dei    caratteri    dell'autonomia     e
dell'indipendenza»  e  destinati  allo   svolgimento   di   «funzioni
prevalentemente consultive e propositive». 
    3.1.4. Per di piu', si osserva ad abundantiam, la disposizione di
cui  all'art.  1475,  comma  2,  decreto   legislativo   n.   66/2010
contrasterebbe  pure  con  il  testo  della  Carta  sociale   europea
riveduta, il cui art. 5 assegna agli Stati firmatari, fra l'altro, il
dovere di determinare la misura in cui la  liberta'  di  associazione
sindacale,  sancita  in  via  generale  dalla  Carta  stessa,   trovi
applicazione nei confronti degli appartenenti alle Forze armate. 
    3.1.5. Anche tale normativa,  si  argomenta,  consentirebbe  solo
limitazioni  della  liberta'  sindacale,   non   una   sua   radicale
obliterazione. 
    3.2. Le  resistenti  amministrazioni,  ritualmente  costituitesi,
hanno sostenuto che «la Corte costituzionale a partire dalle sentenze
n. 348 e 349 del 2007 (richiamate nella sentenza 28 novembre 2012, n.
264) ha costantemente ritenuto che il confronto  tra  la  tutela  dei
diritti   fondamentali   prevista   dalla   Convenzione   e    quella
costituzionale  deve  essere  effettuato  attraverso  il   necessario
bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti,  cioe'
con altre norme costituzionali che,  a  loro  volta,  garantiscano  i
diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall'espansione  di
una singola tutela ... E' in applicazione di tali principi  che  deve
essere  risolta  la  questione  all'odierno  esame,  atteso  che   la
limitazione del diritto del  militare  di  costituire  o  aderire  ad
associazioni sindacali e' posto al  fine  di  garantire  la  coesione
interna delle Forze armate, presupposto a sua  volta  necessario  per
garantire la difesa dei valori e delle  istituzioni  democratiche  al
cui servizio sono poste». 
    3.2.1. Nella  prospettazione  coltivata  dalla  difesa  erariale,
dunque, l'art. 1475, comma 2,  del  decreto  legislativo  n.  66/2010
sarebbe  necessario  per  la  tutela  di   un   valore   fondamentale
dell'ordinamento e,  pertanto,  non  presenterebbe  lo  stigma  della
contrarieta' alla Carta fondamentale, al  perseguimento  di  uno  dei
valori primari della quale sarebbe, di contro, funzionale. 
    3.3.  I  ricorrenti,  in  replica,  hanno  ribadito  le   proprie
traiettorie argomentative e aggiunto che  la  Repubblica  di  Francia
avrebbe, con legge n. 917/2015 entrata in vigore in  data  30  luglio
2015, espunto  dal  proprio  ordinamento,  in  ossequio  alle  citate
sentenze della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  il  divieto
assoluto di associazione sindacale per i membri delle Forze armate. 
    3.3.1. Per di piu', il Comitato europeo dei diritti sociali,  con
decisione pubblicata in data 4 luglio 2016 su un  reclamo  collettivo
proposto da un sindacato francese di appartenenti  alla  «Gendarmerie
nationale», forza di polizia  ad  ordinamento  militare  (ricorso  n.
101/2013, caso «CESP comma Francia»), avrebbe ritenuto  incompatibile
con l'art. 5 della Carta sociale europea riveduta il divieto assoluto
e generale di costituire o aderire ad associazioni  sindacali  per  i
membri delle Forze armate e delle forze  di  polizia  ad  ordinamento
militare, previsto - con  dizione  in  tesi  assai  simile  a  quella
adoperata dall'art. 1475, comma 2, del decreto legislativo n. 66/2010
- dalla previgente legislazione transalpina. 
    3.3.2. Inoltre, il Comitato avrebbe ritenuto si' compatibili  con
l'art. 5 della Carta sociale europea riveduta  «le  restrizioni  alla
liberta' sindacale introdotte [in Francia] con la riforma del 2015 ed
attualmente in vigore, ma  solo  nel  caso  in  cui  il  corpo  operi
funzionalmente come Forza armata. Qualora, invece, il corpo  militare
operi funzionalmente come Forza di  polizia,  tali  restrizioni  sono
state giudicate illegittime». 
    4. Il ricorso e' stato discusso all'udienza pubblica del 30 marzo
2017 e, quindi, introitato per la decisione. 
    5. Il Collegio ritiene che l'esposta  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1475, comma 2, del  decreto  legislativo  n.
66/2010 sia rilevante e non manifestamente infondata. 
    5.1. La rilevanza e' in re ipsa  e  non  abbisogna  di  specifica
dimostrazione: la  disposizione  in  parola,  infatti,  e'  il  perno
giuridico su cui ruota l'intera controversia. 
    5.2. La questione,  inoltre,  risulta  anche  non  manifestamente
infondata. 
    5.2.1. L'art. 1475, comma 2, del decreto legislativo  n.  66/2010
vieta in radice ai militari di «costituire associazioni professionali
a carattere sindacale», nonche' di  «aderire  ad  altre  associazioni
sindacali». 
    5.2.2. Il principio di diritto chiaramente  affermato  dalle  due
pronunce  della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  citate  dai
ricorrenti e', invece, di segno radicalmente opposto: la  restrizione
dell'esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non
puo' spingersi sino alla negazione della titolarita' stessa  di  tale
diritto, pena la violazione dei menzionati articoli  11  e  14  della
Convenzione. 
    5.2.3. L'art. 11 della Convenzione europea dei diritti  dell'uomo
(resa esecutiva in Italia con legge 4  agosto  1955,  n.  848),  come
noto, stabilisce che «1. Ogni persona ha  diritto  alla  liberta'  di
riunione pacifica e alla liberta'  d'associazione,  ivi  compreso  il
diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire  a
essi per la difesa dei propri interessi.  2.  L'esercizio  di  questi
diritti non puo' essere oggetto di restrizioni diverse da quelle  che
sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie,  in
una societa' democratica, alla  sicurezza  nazionale,  alla  pubblica
sicurezza, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla
protezione della salute o della morale e alla protezione dei  diritti
e delle  liberta'  altrui.  Il  presente  articolo  non  osta  a  che
restrizioni legittime siano imposte all'esercizio di tali diritti  da
parte   dei   membri   delle   forze   armate,   della   polizia    o
dell'amministrazione dello Stato». 
    5.2.4. Il successivo art. 14 della Convenzione statuisce che  «Il
godimento dei diritti e delle liberta'  riconosciuti  nella  presente
Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione,  in
particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua,
la religione,  le  opinioni  politiche  o  quelle  di  altro  genere,
l'origine  nazionale  o  sociale,  l'appartenenza  a  una   minoranza
nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione». 
    5.2.5.   L'interpretazione   della    Convenzione,    costituente
formalmente un  trattato  internazionale  elaborato  nell'ambito  del
Consiglio d'europa, organizzazione internazionale  con  carattere  di
stabilita' a sua volta  costituita  con  trattato  interstatuale,  e'
rimessa, ai sensi  dell'art.  32  della  medesima,  alla  sola  Corte
europea dei diritti dell'uomo: per gli Stati firmatari, pertanto,  il
diritto convenzionale vivente non e' quello rappresentato  dal  testo
della Convenzione (ossia dalle relative disposizioni), bensi'  quello
risultante dall'esegesi  dei  Giudici  di  Strasburgo,  unico  plesso
giurisdizionale attributario della competenza a risolvere  «tutte  le
questioni  concernenti  l'interpretazione  e   l'applicazione   della
Convenzione» (cosi' il citato art. 32) e, dunque, a ricavare da  tali
disposizioni le vere e proprie norme giuridiche, le regulae juris. 
    5.2.6. Il Collegio osserva che la Corte costituzionale si e' piu'
volte espressa in ordine ai rapporti della legislazione nazionale con
il diritto internazionale di origine consuetudinaria e convenzionale. 
    5.2.7. In particolare, gia' con la sentenza n. 73/2001  la  Corte
ha  sostenuto  che  «l'orientamento  di   apertura   dell'ordinamento
italiano nei confronti sia delle  norme  del  diritto  internazionale
generalmente   riconosciute,   sia   delle    norme    internazionali
convenzionali incontra i limiti necessari a garantirne l'identita' e,
quindi, innanzitutto i limiti derivanti dalla Costituzione. Pertanto,
i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e  i  diritti
inalienabili della persona costituirebbero limite tanto  all'ingresso
delle  norme  internazionali  generalmente  riconosciute  alle  quali
l'ordinamento giuridico italiano si conforma in virtu' dell'art.  10,
primo  comma,  Cost.,  quanto  delle  norme  contenute  in   trattati
istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati
dall'art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni»). 
    5.2.8. Con riferimento al diritto internazionale convenzionale e,
in particolare, proprio alla CEDU, e' poi intervenuta la sentenza  n.
348/2007, ove la Corte, premesso che «tra gli obblighi internazionali
assunti  dall'Italia  con  la  sottoscrizione  e  la  ratifica  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali  vi  e'  quello   di   adeguare   la   propria
legislazione alle norme di tale trattato, nel significato  attribuito
dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione
ed applicazione», ha affermato che «quanto detto sinora non significa
che  le  norme  della  CEDU,  quali  interpretate  dalla   Corte   di
Strasburgo, acquistano la forza delle  norme  costituzionali  e  sono
percio' immuni dal controllo di legittimita' costituzionale di questa
Corte. Proprio perche' si tratta di norme che integrano il  parametro
costituzionale,   ma   rimangono   pur   sempre   ad    un    livello
sub-costituzionale,  e'  necessario  che  esse   siano   conformi   a
Costituzione. La particolare natura delle stesse norme,  diverse  sia
da quelle comunitarie sia da quelle  concordatarie,  fa  si'  che  lo
scrutinio di costituzionalita' non  possa  limitarsi  alla  possibile
lesione  dei  principi  e  dei  diritti  fondamentali  (ex  plurimis,
sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del
2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis,  sentenze
n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973,  n.
1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989),
ma debba estendersi ad  ogni  profilo  di  contrasto  tra  le  «norme
interposte» e quelle costituzionali.  L'esigenza  che  le  norme  che
integrano  il  parametro  di  costituzionalita'  siano  esse   stesse
conformi alla Costituzione e' assoluta e inderogabile, per evitare il
paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale
in  base  ad  un'altra  norma  sub-costituzionale,  a  sua  volta  in
contrasto  con  la  Costituzione.  In  occasione  di  ogni  questione
nascente  da  pretesi  contrasti  tra  norme   interposte   e   norme
legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformita'
a Costituzione di entrambe e  precisamente  la  compatibilita'  della
norma interposta con la Costituzione e la  legittimita'  della  norma
censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell'ipotesi di  una
norma  interposta  che   risulti   in   contrasto   con   una   norma
costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneita'
della  stessa  ad  integrare  il  parametro,  provvedendo,  nei  modi
rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.  Poiche',
come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono  nell'interpretazione
che delle stesse viene data  dalla  Corte  europea,  la  verifica  di
compatibilita' costituzionale deve riguardare la norma come  prodotto
dell'interpretazione,  non  la  disposizione  in  se'   e   per   se'
considerata.  Si  deve  peraltro  escludere  che  le  pronunce  della
Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini  del
controllo di costituzionalita' delle leggi nazionali. Tale  controllo
deve sempre ispirarsi al ragionevole  bilanciamento  tra  il  vincolo
derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117,
primo comma, Cost., e la tutela  degli  interessi  costituzionalmente
protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In  sintesi,
la completa operativita' delle  norme  interposte  deve  superare  il
vaglio della loro  compatibilita'  con  l'ordinamento  costituzionale
italiano, che non puo' essere modificato da fonti esterne, specie  se
queste non derivano da organizzazioni  internazionali  rispetto  alle
quali siano state accettate limitazioni  di  sovranita'  come  quelle
previste dall'art. 11 della Costituzione». 
    5.2.9. Sul punto si e'  espressa  anche  la  coeva  pronuncia  n.
349/2007, ove si legge che, «con  riguardo  alle  disposizioni  della
CEDU, questa Corte ha piu' volte affermato che, in  mancanza  di  una
specifica previsione  costituzionale,  le  medesime,  rese  esecutive
nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il  rango
e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per
la continuita' dell'orientamento, sentenze n. 388 del  1999,  n.  315
del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresi'
ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito
di operativita' dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce
sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n.  288  del
1997, n. 168 del 1994)  ...  Con  l'art.  117,  primo  comma,  si  e'
realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma  convenzionale
di volta in volta conferente, la quale da' vita e contenuto a  quegli
obblighi  internazionali  genericamente  evocati  e,  con  essi,   al
parametro,   tanto   da   essere   comunemente   qualificata   «norma
interposta»; e che e' soggetta a sua volta, come si dira' in seguito,
ad una verifica di compatibilita' con le norme della Costituzione ...
Questa Corte e la Corte  di  Strasburgo  hanno  in  definitiva  ruoli
diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di  tutelare  al  meglio
possibile i diritti fondamentali dell'uomo.  L'interpretazione  della
Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo,
cio' che solo  garantisce  l'applicazione  del  livello  uniforme  di
tutela all'interno dell'insieme dei Paesi  membri.  A  questa  Corte,
qualora sia sollevata una questione di legittimita' costituzionale di
una norma nazionale rispetto all'art. 117,  primo  comma,  Cost.  per
contrasto - insanabile in via interpretativa - con una o  piu'  norme
della  CEDU,  spetta  invece  accertare  il  contrasto  e,  in   caso
affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione
data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela  dei  diritti
fondamentali  almeno   equivalente   al   livello   garantito   dalla
Costituzione  italiana.  Non  si   tratta,   invero,   di   sindacare
l'interpretazione della norma Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  operata  dalla
Corte  di  Strasburgo,  come  infondatamente  preteso  dalla   difesa
erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilita' della
norma CEDU, nell'interpretazione del  giudice  cui  tale  compito  e'
stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le  pertinenti
norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto
bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli  obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che cio'
possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa». 
    5.2.10. Un cenno merita pure la successiva sentenza n.  311/2009,
in cui e' scritto che «questa Corte ha anche affermato, e qui intende
ribadirlo, che ad essa e'  precluso  di  sindacare  l'interpretazione
della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale
funzione e' stata attribuita dal nostro Paese senza apporre  riserve;
ma alla Corte costituzionale compete, questo si', di verificare se la
norma della CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte europea,  non
si ponga  in  conflitto  con  altre  norme  conferenti  della  nostra
Costituzione. Il  verificarsi  di  tale  ipotesi,  pure  eccezionale,
esclude  l'operativita'  del  rinvio  alla  norma  internazionale  e,
dunque, la sua idoneita' ad integrare  il  parametro  dell'art.  117,
primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua
legittimita', comporta - allo stato - l'illegittimita', per quanto di
ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348  e  n.  349  del
2007)». 
    5.2.11. Infine, in due recenti pronunce (nn. 264/2012 e 235/2014)
la Corte costituzionale  ha  affermato  che  la  difesa  dei  diritti
fondamentali deve essere sistemica e  non  frazionata:  a  differenza
della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  infatti,  la   Corte
costituzionale «opera una valutazione sistemica  e  non  isolata  dei
valori coinvolti dalle norme di volta  in  volta  scrutinate  ed  e',
quindi,  tenuta  a  quel  bilanciamento,  solo  ad  essa  spettante»,
poiche', se «il giudice delle leggi non puo'  sostituire  la  propria
interpretazione di una disposizione della Convenzione europea per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  a
quella data in occasione della sua applicazione  al  caso  di  specie
dalla Corte di Strasburgo, con cio' superando i confini delle proprie
competenze in violazione di un preciso impegno  assunto  dallo  Stato
italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l'apposizione  di
riserve, della Convenzione, esso pero' e' tenuto a valutare  come  ed
in quale misura l'applicazione della Convenzione da parte della Corte
europea si inserisca  nell'ordinamento  costituzionale  italiano.  La
norma CEDU, nel momento  in  cui  va  ad  integrare  il  primo  comma
dell'art. 117  Cost.,  come  norma  interposta,  diviene  oggetto  di
bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui  questa  Corte  e'
chiamata in tutti i giudizi di  sua  competenza  (sent.  n.  317  del
2009). Operazioni volte  non  gia'  all'affermazione  della  primazia
dell'ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle  tutele».  Per
vero,  «nella   giurisprudenza   costituzionale   si   e',   inoltre,
reiteratamente  affermato  che,  con  riferimento   ad   un   diritto
fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non puo'  mai
essere causa di una diminuzione di  tutela  rispetto  a  quelle  gia'
predisposte dall'ordinamento interno,  ma  puo'  e  deve,  viceversa,
costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Del
resto,  l'art.   53   della   stessa   Convenzione   stabilisce   che
l'interpretazione  delle  disposizioni  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  non
puo' implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati  dalle
fonti  nazionali»,  anche  con  riferimento  a  diritti  fondamentali
diversi da quelli presi atomisticamente in  esame  dalla  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo. 
    5.2.12.  In  sostanza,  dunque,  la   Corte   costituzionale   ha
progressivamente tratteggiato i contorni concettuali della  categoria
dei «controlimiti» rispetto alla generale apertura dell'ordinamento a
valori giuridici alieni: l'eventuale contrasto con norme  o  principi
fondamentali della Costituzione osta in radice tanto all'ingresso nel
nostro ordinamento, ai sensi dell'art. 10 della  Costituzione,  della
norma  internazionale  consuetudinaria,  quanto  all'idoneita'  della
norma internazionale di fonte convenzionale a  fungere  da  parametro
interposto di legittimita' costituzionale, a  tenore  dell'art.  117,
comma 1, della Costituzione. 
    5.2.13.  In  particolare,  l'eventuale  contrasto   della   norma
internazionale interposta di  fonte  convenzionale  con  fondamentali
principi   costituzionali   determina,   sul    piano    sostanziale,
l'inidoneita' della stessa a fungere da norma interposta e, sul piano
processuale, l'espunzione dall'ordinamento giuridico nazionale  della
legge di autorizzazione alla  ratifica  del  corrispondente  trattato
nella parte in  cui  consente  l'ingresso  nell'ordinamento  di  tale
norma, mediante questione di costituzionalita' sollevata  ex  officio
dalla Corte costituzionale stessa. 
    5.2.14. Il  Collegio  osserva,  incidentalmente,  che  lo  spazio
valutativo   della   Corte   e'   assai   minore   con    riferimento
all'ordinamento  UE,  la  cui  piu'   stringente   cogenza   discende
direttamente dall'art. 11  della  Carta:  la  sentenza  n.  284/2007,
premesso che «nel sistema dei  rapporti  tra  ordinamento  interno  e
ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa
Corte, consolidatasi,  in  forza  dell'art.  11  della  Costituzione,
soprattutto a partire dalla  sentenza  n.  170  del  1984,  le  norme
comunitarie provviste di  efficacia  diretta  precludono  al  giudice
comune  l'applicazione  di  contrastanti  disposizioni  del   diritto
interno, quando egli non abbia dubbi - come si  e'  verificato  nella
specie -  in  ordine  all'esistenza  del  conflitto»,  specifica  che
l'applicazione del diritto UE, di regola diretta ed automatica, «deve
essere evitata solo quando venga in rilievo  il  limite,  sindacabile
unicamente da questa Corte, del rispetto  dei  principi  fondamentali
dell'ordinamento costituzionale  e  dei  diritti  inalienabili  della
persona (da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006)». 
    5.2.15.  Questo  Consiglio,  pertanto,  ravvisata  la  palese  ed
insanabile  contrarieta'  dell'art.  1475,  comma  2,   del   decreto
legislativo  n.  66/2010  con  la  norma  di  diritto  internazionale
convenzionale come ricavata  dall'esegesi  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo,  non  puo'  che  rimettere  gli  atti  alla  Corte
costituzionale, che, nell'ambito dello  svolgimento  del  conseguente
giudizio di costituzionalita', valutera' se la norma  interposta  non
sia a sua  volta  contraria  alla  Costituzione  e,  come  tale,  non
presenti «idoneita' a integrare il  parametro  dell'art.  117,  primo
comma, Cost.». 
    5.2.16. Il Consiglio, in proposito, rileva che l'art. 1475, comma
2,  del  decreto  legislativo  n.  66/2010  e'  dettato  al  fine  di
assicurare la coesione interna, la neutralita' e la  prontezza  delle
Forze armate, presupposti strumentali  necessari  ed  imprescindibili
per assicurare l'efficacia della relativa azione, posta a  tutela  di
un valore dell'ordinamento di carattere  supremo  e  per  cosi'  dire
primario, quale e' la difesa militare dello Stato. 
    5.2.17. Non ha, sul punto,  rilievo  la  prevalente  destinazione
della Guardia di finanza a compiti di polizia  economico-finanziaria,
circostanza valorizzata dai ricorrenti al duplice fine di  propugnare
l'assunta incongruita' del riferimento operato  in  prime  cure  alle
esigenze di «organizzazione, coesione interna e massima operativita'»
delle Forze armate e di stigmatizzare la  disparita'  di  trattamento
rispetto al personale della  Polizia  di  Stato,  cui  di  contro  e'
riconosciuta ampia liberta' in  materia  sindacale:  ai  sensi  della
legge 23 aprile 1959, n. 189, infatti, «il  Corpo  della  guardia  di
finanza ... fa parte integrante delle Forze armate dello Stato» (art.
1), e' deputato a «concorrere  alla  difesa  politico-militare  delle
frontiere e, in caso di guerra, alle operazioni militari» (art. 1)  e
«ai militari del Corpo della  guardia  di  finanza  si  applicano  il
regolamento di disciplina militare per l'Esercito e la  legge  penale
militare» (art. 10). 
    5.2.18.  Sull'opposto  crinale,  la  predisposizione  legislativa
(art. 1476 e seguenti del  decreto  legislativo  n.  66/2010)  di  un
articolato sistema istituzionale della  rappresentanza  militare  non
puo' comunque soddisfare le esigenze indicate dalla Corte europea dei
diritti  dell'uomo,  giacche'  la   liberta'   sindacale   presuppone
ontologicamente  la  facolta'  di  dar  vita  a  forme  autonome   di
rappresentanza anche al di fuori di  eventuali  strutture  create  ex
lege. 
    5.3. Il Consiglio, inoltre, rimette alla Corte pure  la  distinta
ma connessa questione della contrarieta' dell'art. 1475, comma 2, del
decreto legislativo n. 66/2010 con l'art.  5,  terzo  periodo,  della
Carta sociale europea riveduta, predisposta nell'ambito del Consiglio
d'europa, firmata  in  Strasburgo  in  data  3  maggio  1996  e  resa
esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30. 
    5.3.1. Per vero, la Carta sociale europea riveduta, adottata  con
un trattato internazionale, prevede  un  organo  di  individui,  allo
stato denominato Comitato europeo dei diritti sociali, nominato dagli
Stati contraenti e composto da «esperti della massima integrita' e di
riconosciuta   competenza   in   questioni   sociali   nazionali   ed
internazionali», cui  e'  rimessa,  tra  l'altro,  la  decisione  dei
«reclami collettivi circa un'attuazione insoddisfacente della  Carta»
che  possono  essere   proposti   da   associazioni,   nazionali   od
internazionali, di lavoratori e datori di lavoro. 
    5.3.2. La decisione su tali reclami, tuttavia, non solo e'  priva
di efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri, ma,  prima
ancora, non e' neppure idonea  a  costituire  obblighi  di  carattere
internazionale a carico dello Stato  interessato:  ove,  infatti,  il
Comitato europeo  dei  diritti  sociali  ravvisi,  all'esito  di  una
procedura di «reclamo collettivo», una  «insoddisfacente  attuazione»
della Carta, compete al  Comitato  dei  ministri,  organo  di  Stati,
l'adozione  «a  maggioranza  dei  due  terzi  dei  votanti»  di  «una
raccomandazione destinata alla Parte contraente chiamata in causa». 
    5.3.3. Per quanto qui di interesse,  inoltre,  la  Carta  sociale
europea non assegna  al  Comitato  europeo  dei  diritti  sociali  la
competenza esclusiva ad interpretare la  Carta  stessa:  la  relativa
esegesi, dunque, e' rimessa al  singolo  Giudice  nazionale,  che  vi
procedera' secondo i criteri propri dell'interpretazione dei trattati
(art. 31 della  Convenzione  di  Vienna  sul  diritto  dei  trattati,
conclusa in Vienna il 23 maggio 1969 e resa esecutiva in  Italia  con
legge 12 febbraio  1974,  n.  112,  che,  peraltro,  assegna  rilievo
interpretativo,  oltre  che  a   «testo,   preambolo   ed   allegati»
dell'accordo, anche ad «ogni strumento posto in essere da una o  piu'
parti in occasione della conclusione del trattato e  accettato  dalle
parti come strumento in connessione col  trattato»,  quale  ben  puo'
essere la pronuncia di un organo, come il citato Comitato europeo dei
diritti sociali, specificamente previsto  dal  trattato  al  precipuo
fine di verificarne l'effettivo rispetto da parte dei  Paesi  membri,
sia pure con carattere non vincolante). 
    5.3.4.  Questo  Consiglio   ritiene,   in   proposito,   che   la
disposizione dell'art. 5, terzo periodo, della Carta, laddove rimette
alla   legislazione   nazionale   di   determinare   il    «principio
dell'applicazione delle garanzie» sindacali ai  militari  nonche'  la
«misura» di tale applicazione, intenda evocare un nucleo essenziale -
certo ristretto, limitato e circoscritto - di liberta' sindacali  che
non puo' non essere riconosciuto anche a favore di tali categorie  di
lavoratori: ne consegue che una  norma  nazionale  che,  come  l'art.
1475, comma 2, del decreto legislativo n. 66/2010, privi in radice  i
militari del diritto  di  «costituire  associazioni  professionali  a
carattere sindacale o aderire ad  altre  associazioni  sindacali»  si
pone in contrasto con tale  disposizione  di  diritto  internazionale
convenzionale. 
    5.3.5. Del resto, l'articolo  G  della  Carta  consente  si'  «le
restrizioni ai diritti ed ai principi enunciati nella Parte  I»  (fra
cui  quello  afferente  alle  liberta'   sindacali)   nelle   ipotesi
«stabilite dalla legge e necessarie, in una societa' democratica, per
garantire il rispetto dei diritti  e  delle  liberta'  altrui  o  per
proteggere l'ordine  pubblico,  la  sicurezza  nazionale,  la  salute
pubblica  o  il   buon   costume»,   ma,   menzionando   il   termine
«restrizioni», pare implicitamente escludere la liceita' di  radicali
«esclusioni», invece previste dal menzionato art. 1475, comma 2,  del
decreto legislativo n. 66/2010. 
    5.3.6. Esaurite tali preliminari operazioni esegetiche, tuttavia,
questo Organo giudiziario non puo' che arrestarsi e  rimettersi  alla
Corte  costituzionale:  compete,  infatti,  al  Giudice  delle  leggi
stabilire  se  effettivamente   sussista   tale   contrasto,   previo
accertamento che la norma  di  diritto  internazionale  convenzionale
tratta dall'art. 5 della Carta sociale europea riveduta sia idonea ad
integrare parametro di legittimita' costituzionale ai sensi dell'art.
117, comma 1, Cost., in considerazione dell'impatto che  tale  regula
juris avrebbe sul distinto,  confliggente  e  fondamentale  interesse
dell'ordinamento a disporre di Forze armate concretamente in grado di
apprestare una pronta, efficace ed affidabile difesa  militare  dello
Stato. 
    6. In conclusione, alla luce delle considerazioni  che  precedono
appare rilevante e  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art.  1475,  comma  2,  del  decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento  militare),
per i seguenti profili: 
    a) per contrasto con l'art. 117, comma  1,  Cost.,  in  relazione
agli  articoli  11  e  14  della  Convenzione  europea  dei   diritti
dell'uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze emesse in  data
2 ottobre 2014 dalla Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  quinta
sezione, nei casi  «Matelly  c.  Francia»  (ricorso  n.  10609/10)  e
«Adefdromil c. Francia» (ricorso n. 32191/09); 
    b) per contrasto con l'art. 117, comma  1,  Cost.,  in  relazione
all'art. 5, terzo periodo,  della  Carta  sociale  europea  riveduta,
firmata in Strasburgo in data 3  maggio  1996  e  resa  esecutiva  in
Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30. 
    6.1. Ai sensi dell'art. 23, secondo comma, della legge  11  marzo
1953, n. 87, il presente giudizio davanti al Consiglio  di  Stato  e'
sospeso fino alla definizione dell'incidente di costituzionalita'. 
    6.2. Ai sensi dell'art. 23, quarto e quinto comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87, la presente ordinanza sara' comunicata alle  parti
costituite e notificata al Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
nonche' comunicata ai Presidenti della  Camera  dei  deputati  e  del
Senato della Repubblica.